La condanna inflitta a Marine Le Pen per appropriazione indebita di fondi pubblici del Parlamento Europeo, con la pena agli arresti domiciliari e l’immediata ineleggibilità, segna un momento decisivo per la credibilità della giustizia in Francia e, più in generale, per la tenuta dello Stato di diritto in Europa. È un passaggio che va ben oltre la vicenda personale di una leader politica: è la dimostrazione concreta che la legge non conosce eccezioni, nemmeno quando a essere coinvolti sono protagonisti di primo piano della scena nazionale ed europea.
Contrariamente a ciò che sostengono i suoi sostenitori, non è un segnale di debolezza delle istituzioni, bensì di forza. In una democrazia matura, nessuno è al di sopra della legge; anzi, quanto più alta è la carica ricoperta, tanto maggiore deve essere la responsabilità personale.
Eppure, ciò che colpisce ancor più della sentenza è la reazione scomposta e incoerente della stessa Le Pen, che ha definito l’esito giudiziario “uno scandalo democratico”. Un’affermazione che suona paradossale, se non apertamente grottesca, alla luce del suo passato politico: per anni ha invocato pene esemplari, fino all’esclusione perpetua dalla vita pubblica, per avversari talvolta solo sfiorati da un’inchiesta. Quando la giustizia colpisce gli altri, si parla di “trasparenza e rigore”; quando tocca lei, diventa improvvisamente “persecuzione politica”.
Questa doppia morale non è un episodio isolato, ma il marchio di fabbrica dell’estrema destra populista: una legalità strumentale, selettiva, applicata a geometria variabile, calibrata per colpire i nemici e autoassolversi. È in questo schema che si colloca la solidarietà, tutt’altro che disinteressata, espressa da figure come Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che continuano a riconoscere in Le Pen un’interlocutrice politica legittima e credibile. È un atteggiamento inquietante, ma coerente con una visione della politica in cui la “sovranità” e “l’onestà del popolo” diventano slogan buoni per la piazza, salvo poi difendere chi è stato condannato per aver sottratto denaro pubblico.
Chi rappresenta i cittadini, chi legifera in loro nome, chi si autoproclama “voce del popolo” ha un dovere morale e politico di irreprensibilità. Rubare fondi destinati alla collettività, abusare della fiducia accordata dalle istituzioni e, infine, travestirsi da vittima quando la giustizia interviene non è soltanto un reato: è un’offesa diretta al principio stesso di rappresentanza democratica.
Attenzione, però: non si tratta di gioire per una condanna, né di cedere alla tentazione del giustizialismo sommario, la stessa retorica punitiva che oggi, con sorprendente inversione di ruoli, viene denunciata come “caccia alle streghe” da chi fino a ieri la invocava. La forza di una democrazia si misura proprio nella capacità di garantire a chiunque, anche ai suoi avversari più feroci, un giusto processo, un’adeguata difesa e l’applicazione imparziale della legge. Marine Le Pen ha avuto tutto questo. È stata giudicata secondo norme chiare e con strumenti di tutela garantiti. Ora, come ogni cittadino, deve assumersi la piena responsabilità delle proprie azioni.
Ma il nodo vero è un altro, e riguarda la cultura politica che questo episodio mette a nudo: un’intera area ideologica che, pur rivestendosi di valori tradizionali, identità nazionale e patriottismo, si dimostra nei fatti disposta a piegare le regole quando servono, e a delegittimarle quando non convengono. Se il giudizio della magistratura viene accettato solo quando colpisce “gli altri” e rifiutato quando tocca i propri, allora non siamo di fronte a una concezione democratica della politica: siamo di fronte a un autoritarismo mascherato da “difesa del popolo”.
È nostro dovere, come cittadini e come democratici, riconoscere questa ipocrisia e denunciarla con chiarezza. Non per spirito di vendetta, ma per protezione del bene comune. Perché la democrazia non vive di proclami e slogan: si nutre di coerenza, di responsabilità e del coraggio di chiamare le cose con il loro nome.